Comunicare o fingere di farlo? – della dottoressa Maria Naccarato

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L’uomo moderno è un perfezionista, spesso portavoce di “un’arte del complicare
tutto” per il solo gusto di sembrare colto e ben istruito. In più contesti della vita
sociale e lavorativa,infatti,esso ha, ad oggi,sviluppato mezzi e strategie di linguaggio
finalizzati a soddisfare le sue esigenze e questo non sempre a vantaggio degli altri.
L’ambiente giuridico né è un esempio lampante,luogo in cui il fine giustifica, gran
parte delle volte, il mezzo, utilizzato per il raggiungimento dello stesso. Per esempio
nel diritto tutti i suoi rappresentanti, giudici, avvocati, carabinieri hanno creato una
lingua ormai automatica in cui si trasformano i vocaboli in uso nel semplice parlato
quotidiano in un lessico vago e sfuggente, affinché si dia l’idea di un registro più
elevato. Questa parvenza di superiorità non è cultura, non dà ordine alle cose, ma
crea confusione e disorienta sia chi ascolta sia chi legge. Italo Calvino la definisce “
un’antilingua giuridica”, questa fredda, impersonale ed artificiale lingua che ad oggi
viene sfruttata non solo a livello legale (il legalese appunto),ma anche da gabinetti
ministeriali, consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali. Il
problema reale però è uno solo: se parli l’antilingua quasi nessuno ti capirà. È
necessario ,infatti, ad oggi che il “legalese” si sostituisca sempre più con un lessico
genuino nella mediazione. Per quanto alle sue spalle ci sia un lungo studio per
apprenderlo e una lunga sperimentazione per piegarlo alle esigenze del settore,
bisogna comunque tener presente che,quando una persona non ha familiarità con
questo tipo di linguaggio, è inevitabile che si verifichino fraintendimenti e
malintesi,compromettendo la buona riuscita processuale e la sua trasparenza. È
proprio questo il nocciolo del problema: l’ingrediente primo per la buona riuscita di
un intervento di mediazione è la comunicazione, chiara, diretta, partecipe tra gli
assistiti e il loro mediatore, se manca la comprensione, manca la professionalità e
l’efficienza. I mediatori, infatti, lavorano a stretto contatto con individui protagonisti
di problematiche di vita quotidiana che spesso, attraverso l’ascolto ed il semplice ed
immediato dialogo, possono essere appianate e riconciliate. Il mediatore svolge per
questo un iter arduo perché deve prima comprendere il problema, poi spiegare nel
più semplice dei modi in termini legali come poterlo risolvere,per poi tradurre quanto
svolto in sede di incontro in un verbale che racconti questi ritratti di vita umana,
dipingendoli e descrivendoli con parole che non siano forvianti, ma delucidative.
Dunque tra i professionisti del diritto e gli assistiti, con un registro linguistico-
culturale più o meno distante dai primi, non dev’esserci nessuna incomprensione.
Come si può infatti aiutare un semplice cittadino riempiendolo di termini tecnici

incomprensibili? Rendere semplice un messaggio, quindi renderlo subito
comprensivo, permette una risoluzione più tempestiva ed effettiva del problema.
Affidarsi agli organismi di mediazione è, oggi, una garanzia perché l’obiettivo degli
stessi è lo scioglimento, attraverso formule chiare, di ogni controversia, non la
creazione, mediante un lessico giuridico complesso e distante dalla realtà dei fatti, di
ulteriori nodi al suo pettine. Infatti un verbale di mediazione che contiene impegni
poco precisi e generici non è valido come titolo esecutivo, poiché è fondamentale che
sia chiara la natura del problema, le sue cause e le possibili soluzioni da adottare. Per
confermare quanto detto si ricorda che la giurisprudenza ha già affermato come la
sentenza che emetta una condanna generica non costituisce valido esecutivo (Cass.
Sez. 6 – L, Ordinanza n. 14154 del 23/05/2019; Cass. Sez. L, S.XXXXXX n. 14374 del
14/07/2016; Cass. Sez. L, S.XXXXXX n. 16259 del 29/10/2003) e per eccellenza non è
tale la condanna generica di cui al primo comma dell’art. 278 c.p.c. Nella mediazione
è fondamentale,quindi, che chi scriva riesca a usare le parole nel loro linguaggio
originario e nel loro significato più comune, senza perifrasi affinché non lasci dubbi
d’interpretazione. Rifuggire dall’arte della sofistica è, infatti, l’impegno primo
dell’istituto della mediazione: risolvere senza confondere e persuadere. I sofisti,
infatti,nella Grecia classica, furono filosofi ritenuti poi falsi sapienti, interessati al
successo e ai soldi, più che alla verità. Il termine mantiene anche nel linguaggio
corrente un carattere negativo: con «sofismi» si intendono discorsi ingannevoli
basati sulla semplice forza retorica delle argomentazioni. Per i sofisti il linguaggio
era estremamente importante perché autonomo rispetto alla realtà e modellabile
per i propri scopi, attraverso la conoscenza della grammatica, che permetteva loro di
rendere le parole più difficili, i discorsi più complessi e quindi più efficaci e persuasivi,
proprio come si fa oggi in ambito legale. L’artificiosità era sinonimo di cultura per
questi filosofi, come lo è oggi per i nostri filosofi giuridici, attenti più all’apparenza
delle cose che alla loro sostanza. Con la mediazione,invece,si ripulisce il discorso da
ogni tipo di asperità, rifiutando il barocco legalese a favore di un’esecuzione
traslucida e coerente. Questo mio breve excursus nasce, infatti, dalla volontà di
ribadire l’efficacia di affidarsi agli organismi di mediazione, in quanto più vicini, nel
rapporto con il pubblico, ad una comunicazione partecipe della natura della vita e
dell’essenza delle cose, non indipendente da essa. Il mediatore, sfrutta
volontariamente le potenzialità della semplicità del linguaggio per comunicare con i
suoi clienti,per comprenderli e farsi comprendere,per aiutarli a saper vivere in
gruppo nella società. Non allungare i tempi ed i costi, alleggerire il carico delle
scartoffie e rendere tempestivo il lavoro, attraverso una comunicazione chiara, è il

fondamento su cui poggia l’edificio della mediazione. Affinché esso rimanga saldo e
tutto sia funzionale per chi verrà ad abitarlo, bisogna ricordare a noi “operai del
settore” che le parole sono la nostra massima ed inesauribile fonte di magia, se
diamo loro il giusto ordine e ne facciamo buon uso senza deformarle, sono in grado
di alleviare e ricomporre il caos di qualsiasi puzzle sociale. Da fedele mediatrice,
posso confermarlo a gran voce: la mediazione apre finestre luminose su territori
oscuri.

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